29 novembre 2007

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Se fosse amico un segno di ritorno
dai sorvegliati scogli
a moto e incaglio termine
e sterminio, se fosse inverno il fuoco
dello sbaglio. Immobile deserto
minio finale il frutto
per inesatto vallo tra ignoto
governo e progetto inesistente.
Lucia Sollazzo, Unico Nord, Einaudi, 1973.
*

28 novembre 2007

C’è –

C’è una distruzione, chi la conosce, anche me conosce,
ma che la si conosca non occorre,
non vello d’oro, è un vello di nebbia, un puro
esser sotto una coltre di elementi.

Non c’è felicità che ti rianimi,
o senso di qualcosa che perduri, tu non vuoi più
saper di cose che non ti distruggono,
e alla radio vuoi soltanto Volga
e l’estraneo, il lontano, dalle steppe.

Ci sono distruzioni, non ch’io soffra,
gli dèi in altro modo non si vedono,
e c’è un amore povero e malato, tu come lui, e tu
devi cantar per lui di corte in corte.

Gottfried Benn, Frammenti e distillazioni, Einaudi, 2004.
*
Io d’inverno parlo poco.
*

“i quattro sigilli”

(…)
In una conversazione come quella con il mio vicino sull’aereo, può darsi che l’interlocutore non buddhista incidentalmente chieda: “Che cosa esattamente fa sì che un buddhista sia tale?”. È la domanda più difficile cui rispondere. Se la persona in questione è animata da un interesse autentico, una risposta esauriente non è adatta alla conversazione poco impegnativa che ravviva una cena e le generalizzazioni generano spesso fraintendimenti. Immaginate di dare la risposta vera, quella che si rifà ai fondamenti esatti di una tradizione che risale a duemilacinquecento anni fa.
Si è buddhisti quando si accettano le seguenti quattro verità:
Tutte le cose composite sono impermanenti.
Tutte le emozioni sono dolore.
Tutte le cose sono prive di esistenza intrinseca.
Il nirvana trascende ogni concetto.
(…)
Il buddhismo non ha vincoli culturali: non riserva i suoi benefici a una società data e non trova spazio nei governi e nella politica. Siddharta non era interessato ai trattati accademici e a teorie scientificamente dimostrabili: non si curava che la terra fosse piatta o rotonda. Egli mirava a una realtà di tutt’altro tipo: voleva arrivare al nocciolo della sofferenza. Una cosa, spero di chiarire: i suoi insegnamenti non costituiscono una grandiosa filosofia intellettuale, che è possibile leggere e poi mettere da parte, ma rappresentano una concezione logica e funzionale che chiunque può mettere in pratica. (…)

Khyentse Norbu, Sei sicuro di non essere buddista?, Feltrinelli, 2007.
Traduzione di Cristina Spinoglio.
*
Credo che tutto ciò che fuoriesce dalle righe sia come il plancton.
Poco visibile, vivo.
*
Pratica dell’insegnamento e tangibilità della esperienza mistica.
*

25 novembre 2007

“Le ragazze, quelle che camminano”

Le ragazze, quelle che camminano
con stivali di occhi neri
sui fiori del mio cuore.
Le ragazze che abbassano le lance
sui laghi delle proprie ciglia.
le ragazze che lavano le gambe
nel lago delle mie parole.
1919-21


Angelo Maria Ripellino, Poesie di Chlébnikov, Einaudi, 1968.
*
Eravamo in tante, ieri.
Tutte bellissime.
*

23 novembre 2007

La radura

Se penso che finirà la mia vita
fingo per prova d’esser già morto:
vedo strapparmi dal corpo e nell’orto
di Persefone gettare. Oh, uscita
orrenda! Ma se la radura guardo
che hai dipinto, mi siedo in una Chiara
Mattina e, mentre su l’abbagliante ara
si divinizza la mia ombra, io ardo.
Giampiero Bona, Agli Dei, Garzanti, 1987
*
Questa raccolta mi piace molto.
Inizia con questa citazione:

“Soltanto un dio può ancora salvarci.
A noi rimane la sola possibilità di
Preparare, nel pensare e poetare,
una disponibilità per l’apparire del
dio o per l’assenza del dio nel tra-
monto; la possibilità che noi, al co-
spetto del dio assente, tramontiamo.
Martin Heidegger”
*

Asini in estinzione

Si spengono i fuochi
e non ricordo più chi cessava la danza.
*
volevo dire
*

Cremazione

Ti dico che in una scialba mattina
vedrai fumare a un’aria biancospina
le mie ceneri. Non piangere. Osserva
il mio fuoco: io faccio luce! La cerva
nel petto allora acquieta. È un mistero
che tutto monda, il solo istante vero.
Ma amo gli Dèi, perciò non hai pretesti
vili: forza, sperdi al vento i miei resti…

Giampiero Bona, Agli Dei, Garzanti, 1987.
*

22 novembre 2007

Ignoranza

non sapevo che
non averti poteva essere dolce come
chiamarti perché tu venga nonostante
non venga e non ci sia che
la tua assenza tanto
dura come il colpo che pensandoti
mi son dato in faccia

Juan Gelman, Poeti ispanoamericani contemporanei, Feltrinelli, 1976.
A cura di Marcelo Ravoni e Antonio Porta.
*

20 novembre 2007

Gente incontrata

Esseri umani ho incontrato che,
quando si chiedeva loro il nome,
timidamente – come se non potessero pretendere
di possedere anche soltanto un modo di chiamarsi –
“signorina Christian” rispondevano e poi:
“come il nome”, e ti volevano
agevolare la comprensione,
nessun nome difficile come “Popiol” o
“Babendererde” –
“come il nome” – prego, non incomodi
la sua facoltà mnemonica!
Esseri umani ho incontrato che
coi genitori e quattro fratelli in una stanza
crebbero, di notte, con le dita nelle orecchie,
studiavano al focolare,
si fecero strada, di fuori belle e ladylike come contesse –
di dentro miti e operose come Nausicaa,
avevano la fronte pura degli angeli.

Mi sono spesso domandato e non ho trovato risposta,
da dove venga la dolcezza e il bene,
nemmeno oggi lo so e ora devo andare.
Gottfried Benn, Aprèslude, Einaudi, 1990.
*

Benn

ti sento come una ferita
non rimarginata

un taglio sulla fronte

ma non scacciarmi
non restituirmi
al morto mondo

starò immerso in te
finché è possibile
senza afflizione o gioia
Attilio Lolini, Notizie dalla necropoli, Einaudi, 2005.
*

206

Quando l’udaijin Tokudaiji era capo della polizia e teneva una volta una riunione ufficiale alla porta centrale, un bue, staccatosi sal carro del funzionario Akikane, entrò nell’ufficio, salì sulla piattaforma rialzata su cui il capo della polizia sedeva, e vi si sdraiò ruminando. Tutti dissero che il caso era grave e pieno di misteriose incognite, per cui l’animale avrebbe dovuto esser condotto da un indovino. Ma il Primo Ministro, padre del capo della polizia, avendo udito ciò, osservò: “Un bue non ha sì discernimen-to, e, siccome possiede le gambe, dov’è che non può salire? Non c’è bisogno, quindi, di sequestrare un animale di nessun conto, che un impiegatuccio mal pagato usa raramente per recarsi al proprio ufficio”. E così il bue fu restituito al suo proprietario e vennero cambiate le stuoie su cui si era sdraiato; né si verificò alcun evento infausto.
Si è detto che quando si deve qualcosa di strano senza meravigliarsi, allora essa cessa di essere strana.
Kenko Hoshi, Ore d’ozio, Leonardo da Vinci, 1965.
A cura di Marcello Muccioli.
*

18 novembre 2007

Valore

Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.
Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle.
Considero valore il vino finchè dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano.
Considero valore quello che domani non varrà più niente e quello che oggi vale ancora poco.
Considero valore tutte le ferite.
Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi, provare gratitudine senza sapere di che.
Considero valore sapere in una stanza dov’è il nord, qual è il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca, la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.
Considero valore l’uso del verbo amare e l’ipotesi che esista un creatore.
Molti di questi valori non ho conosciuto.

Erri De Luca, Opera sull’acqua e altre poesie, Einaudi, 2003.
*

I verbi brutti

Intrudere.
Essudare.
Auzzare.
E così ragionando sempre in termini di significazioni, pensavo alle lettere che si uniscono l’una all’altra per formare i nodi imbrigliati e poi agli intrighi marini di alcune liquide parabole piovane, allo zoo di vetro, al radicchio di Chioggia e quindi ad una residenza egizia

Era una riflessione così tanto profonda che ho dovuto passare il pensiero nel setaccio alfabetico:
“abiogenesi, autogenesi, autorevole, automatico, automedonte”.
*
Nel refluo:
Il blog come tatuaggio.
L’ho trovato scritto molte volte.
Io non ho tatuaggi.
Ho un blog.
Certo, c’è quel bel problema dell’impermanenza di tutte le cose ed è quella fissazione del significato sulla vela cangiante, che mi inquieta i pensieri.
Per il resto, volevo dire che i miei capelli sono a posto, la mia famiglia
sta bene, i miei amici se la cavano e i miei conoscenti sono quasi tutti
in gamba.
*

17 novembre 2007

Come chi torna dalla guerra
ci si incontra e ci si dà la mano
ma non si chiede delle ultime battaglie
o del profilo dei nemici.
Il nostro sguardo si incontra
dove non ci saranno carezze per nessuno
né occhi lucenti come astri, né baci.
Che sguardo strano, che divergenza.


Nico Naldini, La curva di San Floreano, Einaudi, 1988.
*

16 novembre 2007

14.

“(…)
Che cosa ci spinge a trovare simboli e corrispondenze? Forse una specie di terrore al pensiero di strade vuote, di distanze non misurate da qualche passo, di cose irreparabilmente lontane, perdute – e che dunque, manifestino l’irreparabilità della lontananza, della perdita.

Non è come se la poesia avesse la funzione sostanziale di trovare simboli e corrispondenze? Un vero e proprio ruolo sociale…

Nella rima, segni grafici e musica annullano distanze, mettono in evidenza corrispondenze. Al di fuori della dimensione di ogni logica. Nella dimensione di qualche “verità”.

Le corrispondenze materiali prodotte dalla rima si trasformano, in noi, in corrispondenze immateriali – di sensi, di significati.

Corpo pensato, in fuga, da una figura all’altra. Lungo la grande via dei simboli, delle corrispondenze, delle analogie. Vita che continuamente fluisce. Contro l’irrigidimento che è della morte.
(…)”



Emilio Tadini, La distanza, Einaudi, 1998.
*

14 novembre 2007

Per lettera

Come è sempre bravo il cuore nini come non sbaglia mai stamattina
in Detroit di ferro lungo la così chiamata Cass mentre arrancavo
via controvento in fretta nella dura gelida
luce di qua

lui m’è sfuggito a un tratto a sinistra dentro un vicolo
laterale ma che dico un vicolo! Dentro una pura
fessura da sorci e da micie e da cicche mezza al buio
fra due nere muraglie a strapiombo – e di laggiù
proprio di laggiù dal fondo d’una qualsiasi
povera penombra senza nome che alfine ce l’ha pur fatta
a ritrovarti


Giorgio Bassani, IN GRAN SEGRETO, Mondadori, 1978.
*

11 novembre 2007

ancora bacetti

-“Fare il marito è un lavoro a tempo pieno. A. Bennet”
-“Un fesso questo Bennet, scartane un altro.”
*

Das letzte varieté

2.
Guai a chi si costruisce il suo mondo da solo.
Devi associarti a una consorteria
Di violinisti guerci, di furbi larifari,
di nani del Veronese, di aiuole militari,
di impiegati al catasto, di accòliti della Schickeria.
E ballare con loro il verde allegro dello sfacelo,
le gighe del marciume inorpellato,
inchinarti dinanzi ai feticci della camorra,
come Abramo dinanzi al volere del cielo.
Guai a chi sulla terra è sprovvisto di santi,
guai a chi resta solo come un re disperato
fra nei ceffi di lupi digrignanti.

Angelo Maria Ripellino, Lo splendido violino verde, Einaudi, 1976.
*

So dare ferite perfette

Una confraternita cercavo
per tutti quei roghi che spiccano
dentro me dolorosi
e tutte le tarantole che mi riempiono
il petto.

Una confraternita di ballerini savi
che stando io così come
tutta randellata in ogni mia
parte, stando io secca e sassosa
nel mio dormitorio pauroso

stando poco adattata
e non frequentando
saloni in similoro ma piuttosto
furgoncini mogi mogi e poco funzionanti

ecco sì, una confraternita
con un forte ago per le
cuciture di questa mia schiena
squadernata che mi esce l’anima oggi
lasciando me zampettare senza
un valido scontrino d’amore

che quando sto senza
erbacce nel cuore sto come premiata
tutta contenta e senza cornate nel petto
o bidonate del solito pilato che
torna con mani lavate, quando
la mia testa poggia
diretta nel cielo fissa alla polare splendente
e non come ora che un mago guastatore
ha fatto brioches di quel mio fiume d’oro.

E come ridevo, ve lo ricordate come ridevo?
Prima ero una forte cosacca, una ballerina vera
e non me lo spiego il passato remoto
Del bene e del bello.

Una confraternita buona, senza bagarinaggio
e dure bastonate, con focacce e
matite colorate
e una parola per sempre
convalidata e sicura

che ogni mezzacartuccia di questo
mondo faccia la definitiva trasferta
e un gran paradiso io voglio nel cuore
e fuori del cuore.

Mariangela Gualtieri, Senza polvere senza peso, Einaudi, 2006.
*

Sfera

Una forma ideale, affidabile,
informata ai confini del metafisico,
non meno elastica della gomma
rimbalza lungo la direttrice
cronologica della storia lineare
stupendoci per la lunga
gittata temporale delle idee
così ispirate alla balistica.
Soltanto la sfera
nella sua uniformità
poteva riflettere
il ritratto della monade,
effettuare rapide inversioni di marcia
con imprevedibili traiettorie,
lasciarsi colpire di contro balzo
dai nemici del progresso.
Apparire nel Giardino delle Delizie
di J. Bosch;
farsi labirinto sferico nel gomitolo
inseguito dal levriere giocoso
sulla tela del Carpaccio;
prendere il posto del sole nel
Cenotafio a I. Newton di E.L. Boullée;
perfezionare il ciclo degli adattamenti
tornando a essere “Frutto Proibito”
nell’orticultura di René Magritte.

Valentino Zeichen, Poesie (1963-2003), Mondadori, 2004.
*

Camera oscura

(…)
Mi aveva preso
un senso un po’ smarrito
di disdetta e di stupore
alla scoperta
che uno non trovi
mai il posto
che gli spetta
e non riesca a
stare a una misura.

Ed è finito, per me,
in sospeso il fatto
che vivere sia come
scoprire qualcosa
di interdetto
e di proibito,
che tutto nasca e
cresca di nascosto,
che avvenga insomma,
sì, nella paura.


Paolo Ruffili, Camera oscura, Garzanti, 1992.
*

Figura del paladino

La mia storia di prode
Sui portelli dei carri rusticani
La puoi leggere ancora,
se ne parla d’estate.

Come Buovo d’Antona
ho vinto senza spada,
ho riso nella piazza
con una fascia rossa alla cintura.

Come Buovo d’Antona
m’hanno fatto un incanto,
dormo sul petto e non mi so svegliare,
sono tradito e non saprò da chi.

Gesualdo Bufalino, L’amaro miele, Einaudi, 1989.
*

Che lo riconosca o no

È sempre lo stesso volto,
qualche volta mi fa l’effetto
della mia mano poggiata sul tavolo:
pare di un altro. E non è
che il prezzo d’essere ancora vivo,
lo so e pago felice
che non ci siano ripensamenti

mentre osservo nello specchio
l’ombra dietro la finestra di un vicino.

Ermanno Krumm, Animali e uomini, Einaudi, 2003.
*

Postille

Il poeta… C. Z.,
stanco della vita mondana,
non sognò più che una mèta:
la vita tranquilla.
E si ritirò
in una sua bellissima villa
in Toscana.
Solo, colla sua servitù,
si rinserrò là dentro
per non uscirne più.

I suoi servitori
vestivano, a festa di dentro,
a lutto di fuori.

A lato del cancello,
al posto del solito cartello
e del solito nome col solito campanello,
vi fece murare, come coi morti s’usa fare,
una lapide bianca, di marmo,
su cui era scritto così:
Qui vive
sepolto
un poeta.

E vi si seppellì.

Ma il giorno seguente
due camerieri
accorron dal loro signore
affannati e stravolti.
- Che c’è?
- Signore!
- Signore!
- Sapete?
- Sapete?
- Che cosa?
- Là fuori, al cancello…
sul marmo ov’è scritto: qui vive,
sapete? Accanto alla parola: poeta
C’è scritto…
- C’è scritto?
- Una brutta parola signore.
- Sentiamo.
- C’è scritto… imbecille.
- Oh!... Dio…
(Sarà forse passato
un mio compagno antico,
qualche collega, qualche vecchio amico)
Restate tranquilli,
non son che… postille…
- E sotto, piccino, piccino,
c’è scritto: cretino.
- (Ormai giunto alla mèta
non voglion risparmiare
neppure l’ultimo verso
al povero poeta)
Restate tranquilli,
non son che postille,
lo scrivon più o meno a tutti i cancelli
di tutte le ville.
- Signore!
- Signore!
- Avanti, sentiamo.
- In grande su in cima,
vicino a: qui vive, c’è scritto: un pazzo,
e dopo la parola: poeta, c’è scritto: del cazzo.
- Postille! Postille!
- E dopo: coglione,
c’hanno scritto col carbone.
Vivo o morto è lo stesso,
caro poeta,
sarai sempre un fesso
.
- (E’ l’eco del mondo dove più non vivo,
Sono i vari pareri sul libro che non scrivo).
Restate tranquilli v’ho detto.
- Nell’angolo in lapis violetto:
Quale insperata mèta!
un manicomio sì grande,
per sì piccolo poeta!

- (Postille al frontespizio
del libro che non scrissi,
dell’ultimo poema
che solamente vissi)
- Buffone!
- Ruffiano!
- Maiale!
- Dopo la parola poeta.
- Benone!
(Mi giungono le voci quassù
come se leggessi il giornale
che non leggo più)
- Stupisci o passeggero!
Per un pazzo solo
Un manicomio intero!
- Questa è la tomba
del poeta bomba.

- E in lapis copiativo…
- E in lapis copiativo?
- Pederasta passivo.
- Ma bene, benone!
- Dovranno lavare col sangue
gl’insulti, i signori passanti!
- Sapremo appostarci e col nostro pugnale
ficcargliela in gola,
ad ognuno,
la propria parola.
- Pianino, pianino ragazzi,
pianino col sangue!
Tenete la chiave dell’armadio grande,
prendete il bacile d’argento
a putti e ghirlande,
(serviva a nettare le labbra e le dita
dei convitati alla fine dei pranzi
quando il poeta era in vita)
dell’acqua, una spugna,
ed ogni mattina,
nella vostra opera di pulizia
il primo lavoro sia quello:
lavare bene bene la lapide al cancello,
senza sgarrare,
non c’è altro da fare.
- Col sangue
dovranno lavarla i passanti!
- Col sangue!
- Mi sembra che l’acqua
sia un lavacro più spiccio,
col sangue, miei cari,
finireste per fare
un curioso pasticcio.
- Vigliacchi! Sfregiare una tomba!
- Insultare un sepolto!
- Lo sanno lo sanno
che sotto quel marmo c’è un morto che ode,
non spunterebbero il lapis con tanto affanno,
o avrebbero lode;
i morti, di solito, li lodano molto
o li lasciano in pace;
prima della parola: sepolto,
là fuori, c’è scritto: qui vive, non giace.

Già i morti di fronte,
giganteschi santi
dai manti turchini
che gli scendono giù ampi
in morbidi inginocchiamenti,
s’apprestano a cingere l’aureola abituale,
e immobili nei loro inchini
aspettano il passaggio del sole.
Tremulano nell’aria
Gli ultimi gorgheggi degli usignoli.
I rami sporgenti dai muricciuoli
scuotono rosei fiori
sulla via bianca polverosa
della campagna silenziosa.
Due servitori in livrea di strettissimo lutto
aprono un grande cancello.
E con spugna e bacile
lavano bene bene un cartello di marmo
dappertutto.
Guardan dipoi su e giù per il viale
a dritta e a manca
prima di rientrare:
“la lapide è bianca,
signori passanti,
la vostra parola ci manca,
avanti! avanti!”

Aldo Palazzeschi, Poesie, Vallecchi, 1925.
*

9 novembre 2007

Così va la vita

Quanti guasti
quanti strappi
quanti buchi tra le sue maglie
e non una toppa.
Non si rammenda e non si aggiusta
non è una camicia,
usata la si butta.
O si rinnova.
Come un abito
tagliato su misura
ha bisogno di più prove.


Nelo Risi, Poesie scelte (194-1975), Mondadori, 1977.
*

8 novembre 2007

Quel che mi è rimasto nel gozzo

è lo scalmo del mozzo.
*
Il concetto:
“il perdono dei tuoi genitori”.
Io, volevo dire: ho da tempo perdonato i miei.
*
Il concetto:
"il Destino".
Mi si ficca in gola un uncino.
*
Cara Lola, ti avrei amata.
*

Il fuco

Non posso scrivere niente sulle donne che generano figli da tenere in ostaggio.
Non posso trattare degli assegni di mantenimento come fossero termini di riscatto.
Non si può sempre scrivere dei rapimenti veri.
Beh, poco male, volevo infatti parlare degli uomini che si comprano le motociclette.
Non posso dire però che una motocicletta costa più di un figlio.
E nemmeno niente su coloro i quali, per vivere ancora cercano sostitutivi a due ruote sui quali pattinano velocemente verso la ferma convinzione che la Libertà Ritrovata si debba concretizzare nella esibizione di una fattura attestante i costi sostenuti per il mantenimento della moto.
Non posso farlo, non mi entra la punteggiatura.
E' roba brutta.
*
Potrò dire che è forse più facile trasferirsi in Brasile.
A Cuba, si sa, è cosa nota, una fidanzata costa 1 Euro per tutto il giorno.
In Brasile, i mariti ci vanno per sposarsi un’altra volta.
Mi diceva:
-“In Brasile si balla tutto l’anno. Non lo so se poi ritorno.”.
*

Il perdono non è contemplato

Ognuno è responsabile delle proprie azioni e se qualcuno opera un torto a un altro, si dovrà aver cura dell’essere agente, non della sua azione che, malvagia, dovrà essere condannata.
*
-“Signora Nonna di Jou-rjo T., questa è una cosa davvero difficile”
-“Retribuzione di maligno è Grande Male. Sviluppa compassione.
Leva da vilup-pòo. Giudizio è fascina, brùucia."
abbasso gli occhi, mi studio la punta della scarpa, lei aggiunge:
-“Se cosa è facile, fa’. Se cosa è difficile, preéga.”
*

Sempre aspetta il mio sangue

Sempre aspetta il mio sangue. È lui che fissa il convegno.
Al buio, bella posta, vuole di più, vuole amore.
Senza te non son nulla, mondo. Di te ha bisogno
La cima della cima in silenzio: il mio stupore.

Jorge Guillén, Opera Poetica – Aire Nuestro, Sansoni, 1972.
A cura di Oreste Macrì.
*

7 novembre 2007

Qui non emerge niente

Non mi giungono più Tue notizie,
è tanto che aspetto, mi sorprendo a pensare.
Le gaggie e calendule vengon su bene ma è una grande illusione
innalzare un recinto fantastico ove rinchiudere affetti ed amori,
perché siano al riparo, sicuri dal fuori.
Mi è dispiaciuto non poter assistere al tripudio delle menti di
tanti giocolieri, ma il ponte è crollato, si è aperta una falla
e l’acqua ha inondato le piantagioni e i percorsi.
Ho il cuore che piange – scrivevo, ma ahimè – il lirismo risuona
tanto drammatico quanto un ironico cotoneastro.
Bisogna azionare i globi oculari, mi dico e ripeto,
guardare all’inoltre, quello che oggi distrugge sarà domani
un mondo senza più lutti e né grucce.
Ci credo e dispero, lo stato, l’essenza dell’essere umano,
sai dirmi l’istante in cui svela se stesso, e dimmi, davvero
il miracolo avviene in quelle foreste che nominavi dell’Immaginifico Mistico?
Beh, insomma, è tutto successo quanto anche Arajuna Cobrowsji dopo
aver assoldato una brigata di bagagli parlanti è partito,
blaterando di voler sconfiggere il prossimo inverno, lassù,
oltre i picchi più in alto dell’aquile.
Ci eravamo accampati alle falde del monte e intenti
a vagheggiare il paesaggio non c’avvedemmo
dei pistilli versati nell’acqua.
Fu scroscio.
*
A quel punto fu chiaro: dovevamo avanzare, spostarci,
lasciare il posto e le pezze a chi risvegliato dal vecchio letargo
raggiungeva alfine le sponde, eppure avremmo voluto ancora indulgere
lieti nel contemplare le frizzanti cascate, procrastinare il momento,
sai, come quando tra i rami ammalianti del bosco, il genere umano divina
di alcuni tra i futuri migliori.
Ricordo che nella lacerante simiglianza del crollo andavo mormorando filastrocche:
abbarbicata al manico d’ombrello che impedirà
il mio sfracellamento al suolo largo e bello

Che fare – mi dicevo in sconforto – precipitare ancora nel vuoto senza fine o sollievo?
Affrontare lo strappo reagendo all’evento?
O aggrapparmi alla veste di un altro perché laceri le trame e gli orditi?
Che fare? Mi manchi.
Ed è un solco che apre le onde, Amico mio grande.
*
Ho il cuore che piange, l’impresa si palesava
impossibile e un vento dubbioso ci fluttuava all’intorno sobillando tristezza,
un’infinita tristezza che ora comprendo, pur tanto placava se stessa sollevando
le ali di un’angoscia compressa.
Di poesia ci si ammala e si muore, raccontava il Viandante,
mentre io mi dolevo dell’Altro, di Arajuna, il mancante.
Credevo puerile e ingenua arrogante che esistesse un solcato in chi sa quali percorsi stellari, un tracciato di fondo, un limite massimo che ancorasse l’abisso, ma se vi è, ancora non scorgo le intraverse montagne, vedo schiume e poi altri ritorni.
*
C’è un’aria un po’ mesta, non finisce la guerra, passa il tempo e nemmeno un
ingaggio, ma tu non aver mai paura di mostrarti infedele o coltivare la barba,
nel greto dei nostri destini siamo uni mai trini, ma, pur ben so, lo comprendi,
nessuno nuota assai troppo a lungo nel largo.
E poi, in fondo confesso che non era poi così facile la vita, in quella metropoli.
Ricordo che spesso mi sono scoperta a rimestare la mente rispondendo a me stessa:
Qui non emerge niente.
Non è per me, non m’appartiene questa vita da isolana, trovo sempre qualcuno
che nasconde una bara sotto tumuli di gusti e rifiuti, incappo sovente in
qualche terrazzo di falso avventore, che in agguato dietro mucchi di rovi,
è pronto a dare spintoni e molestare con malsana isteria qualunque specie di
passante, osti panciuti.. molli albicocche..
Comprendimi, la vita allo Specchio è sempre lo scoglio.
*
Ma del futile e giornaliero, dimmi, non trovi gioia nel deliziar comune
di tua nazione?
E riguardo all’insegnamento del saggio che conosce le Tre Esistenze della Vita,
manifesto in questa grata la mancanza di progresso, perché numero sempre i cerchi
nell’acqua, ma proprio non mi riesce di risalire alle date.
E Tu? Hai poi mutato il destino?
*
Quindi, butto all’aria vezzi e monili e al pari di Ermengarda, me ne rimango ben salda sulla vicenda o zattera, pronta e in procinto di andare a conoscere un nuovo miracolo che mi faccia un poco da corte, con Jurga, Baruda e Zimbaljet che strilla da ossesso: “Non correte balordi! Mi si incurva la groppa!”
*

6 novembre 2007

Cantare

Ma quando poi cominciammo a cantare
le buone nostre canzoni insensate,
allora avvenne che tutte le cose
furono ancora com’erano state.

Un giorno non fu che un giorno:
sette fanno una settimana.
Cosa cattiva ci parve uccidere;
morire, una cosa lontana.

E i mesi passano piuttosto rapidi,
ma davanti ne abbiamo tanti!
Fummo di nuovo soltanto giovani:
non martiri, non infami, non santi.

Questo e altro ci veniva in mente
mentre continuavamo a cantare;
ma erano cose come le nuvole,
e difficili da spiegare.

3 gennaio 1946.

Primo Levi, L’OSTERIA DI BREMA, All’insegna del pesce d’oro, 1975.
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5 novembre 2007

Considerazioni

-“.. e poi, la nuova fidanzata di mio marito, c’ha pure la cellulite!”
Sorridiamo.
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La compassione

"La povera Kisa Gotami andò ora di casa in casa, e la gente aveva compassione di lei e diceva: “Ecco dei semi di senape; prendili!”. Ma quando ella chiedeva: “E’ morto nella vostra famiglia un figlio o una figlia, un padre o una madre?”, essi le rispondevano: “Ahimè! I vivi sono pochi, ma i morti sono molti. Non ricordarci il nostro più profondo dolore”. E non v’era casa dove non fossero morte delle persone care. Kisa Gotami divenne stanca e desolata, sedette sul ciglio della strada, guardando le luci della città, che si accendevano tremolanti e si spegnevano di nuovo. Infine l’oscurità della notte regnò in ogni luogo. Ed ella considerò il destino degli uomini, e le loro vite che si accendono tremule e poi si spengono. E pensò tra sé: “Come sono egoista nel mio dolore! La morte è comune a tutti; pure, in questa valle di desolazione, c’è un sentiero che conduce all’immortalità colui che ha abbandonato ogni egoismo”.
Scacciando via l’egoismo dal suo affetto per il proprio bambino, Kisa Gotami fece seppellire il cadavere nella foresta.


Pensieri e massime del Buddha, a cura di Gabriele Mandel, Mondadori, 1967.
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Capitolo trentaquattresimo

“Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale; quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era solo il suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, chè, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.”


Alessandro Manzoni, “Promessi sposi”.
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4 novembre 2007

da Giovane è il tempo

Se hai premuto nel sogno
la mano contro il mio petto
una orgogliosa cavalla
s’impenna
vuole libere strade
e sterminate pasture

Lalla Romano, Poesie, Einaudi, 2001.
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Il sogno

Se ancora desideri incontrare
chi non hai mai conosciuto
puoi aspettare un’ora qui
al confine.

La sera è fredda
E la notte si fa buia.
Di qui passano tutti,
e se anche camminano
con il capo piegato,
devono alzarlo alla luce violenta
delle lanterne delle guardie di frontiera.

E quando lo sconosciuto giunge,
tu vuoi riconoscerne il volto
dalla sua stanchezza e dalla sua forza,
tu vuoi riconoscerne le mani
dal modo in cui esse si congiungono l’una nell’altra
dal modo in cui esse si modellano ad una coppa
al fine di porgerti ciò
di cui tu sei assetato.

Tu non vuoi poter gridare,
tu non vuoi poter bere,
ma soltanto sapere
che tutto ciò che hai sognato è vero.

Astrid Tollefsen, in “L’altro sguardo”, Antologia delle poetesse del ‘900, Mondadori, 1996, a cura di Guido Davico Bonino e Paola Mastrocola.
La traduzione della poesia è di Renzo Pavese.
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Ti guardo

2

“C’è
sempre qualcuno che ci assomiglia
da qualche parte”
disse la piccola prostituta
sorridendo sicura
guardando la finestra
come se stesse vedendo
il suo sogno
simile a un albero carico
di frutti.

Maram al-Masri, in “Non ho peccato abbastanza”, Antologia di poetesse arabe contemporanee, Mondadori, 2007.
A cura di Valentina Colombo.
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2 novembre 2007

Il progetto

È un medico pediatra, ha 83 anni.
Specializzato in malattie del sistema respiratorio.
Non ha altri passatempi.
-“Curare gli altri è stata ed è, tutta la mia vita” e aggiunge:
-“quando andrò in pensione, inizierò a viaggiare.”
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era qui:

La maschera del cattivo

Alla mia parete è appeso un intaglio giapponese,
maschera di un cattivo dèmone, laccata d’oro.
Pieno di compassione io guardo
Le vene gonfie della fronte che provano
Quanta fatica costi la malvagità.

Bertolt Brecht, Io Bertolt Brecht, Avanti, 1962.
A cura di Roberto Fertonani.

La riserva

Se vuoi cominciare a mutare
sciogli la riserva. Non essere più
il signor Si Però. Abbi la certezza,
impara a scegliere, non abbi dubbio,
ricordati che l’alternativa è finzione
della mente a se stessa,
tu credi di essere in giostra,
ma il tuo interesse ha già fatto
mostra di scelta. Tu hai troppo
bisogno di sogno del dubbio, se andare a
Montalcino o a Gubbio. Rinunciare
al dubbio è come rinunciare
a se stessi. Rinuncia a te stesso.
Considera smesso l’abito sempre
nuovo. L’incertezza fertile è detta
se cose nuove di certezza detta.


Ottiero Ottieri, Tutte le poesie, Marsilio, 1986.
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1 novembre 2007

74.

Arrivo in paradiso. Un angelo fulvo mi chiede:
“Come hai fatto a vivere con quella cosa aperta,
con quel buco?” Che dirgli, così di contropiede?
Che mi ero abituato, benché stessi all’erta?
Che la portavo con orgoglio e ci scherzavo
quando non mi assaliva la gogna del lutto,
la turpe e senza respiro disperazione?
Che facevo finta di niente, perché dopo tutto
quel male aveva piedini burleschi?
È che un tragico è sempre un buffone:
cessato di piangere sulla sua geènna,
sulle putride croste dei suoi guidaleschi,
si muta in pagliaccio e folleggia
con quella cosa aperta, con quella caverna,
con quel nòcciolo di ciliegia.


Angelo Maria Ripellino, LO SPLENDIDO VIOLINO VERDE, Einaudi, 1976.
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